IL BLOG DI ROBERTO DI NAPOLI

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Archive for the ‘diritti umani’ Category

Dal quotidiano online In Terris: “La “candela” del Papa per i Poveri: L’Ambulatorio che restituisce la dignità”

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 7 dicembre 2025

L’abbraccio della Chiesa all’umanita’ che sembra rappresentato dal colonnato del Bernini, in questo caso sembra realizzarsi concretamente: un ottimo servizio di cure ai senza tetto e ai bisognosi
— Leggi su www.interris.it/copertina/la-candela-del-papa-per-i-poveri-lambulatorio-che-restituisce-la-dignita

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Indagini inefficaci sulla morte di un operaio e inadeguatezza della normativa contro i trattamenti inumani e degradanti. La Cedu condanna l’Italia

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 11 giugno 2025

Riporto di seguito il link agli articoli su due recenti sentenze del 27 marzo 2025 e del 5 giugno 2025 con le quali, ancora una volta, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Colpisce, credo -oltre ai motivi che hanno determinato la condanna- che in quest’ultimo caso lo stesso procedimento dinanzi alla Cedu -che, spesso, ha condannato l’Italia per eccessiva durata dei processi- si sia concluso dopo 10 anni dal ricorso.

Dal sito Il Sole 24 Ore:

Maltrattamenti da parte delle forze di polizia: la Cedu condanna l’Italia

Cedu, Italia condannata per inchiesta inefficace sulla morte di un operaio Ilva

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Nato per lo Stato ma fantasma all’anagrafe?

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 29 marzo 2025

La riproduzione anche parziale del contenuto del blog è riservata. E’ consentita la riproduzione solo citando la fonte o il link del blog o del singolo post

La notizia del ragazzo quattordicenne, nato e vivente per lo Stato ma ignoto all’anagrafe comunale, farebbe ridere se non facesse riflettere sui paradossi e sulle assurdità che, in questo Paese, forse, nemmeno stupiscono più ma sicuramente rattristano.

Se è vero quanto si legge, ossia, che il ragazzo ha la tessera sanitaria e il passaporto ma non la carta di identità, ciò significherebbe che, in sostanza, può viaggiare per il mondo ma non può esibire la carta di identità o provare dove è nato. Una vicenda che sembrerebbe tratta da qualche opera pirandelliana o che fa venire in mente il titolo del racconto di Ennio Flaiano “Un marziano a Roma”; purtroppo, invece, è realtà.

E’ possibile che una persona debba subire l’ulteriore disagio di doversi rivolgere al Giudice per fare ordinare al Comune di prendere atto che, effettivamente, è nato quattordici anni fa e non è, quindi, un fantasma? Sarà accertato chi è il responsabile della mancata iscrizione all’anagrafe? Ci sarà qualcuno che pagherà (di tasca propria) i disagi procurati?

Sul settimanale Panorama (n. 14/2025), Mario Giordano, nella rubrica “Il Grillo parlante”, commentando la vicenda sotto il titolo “Vivo e vegeto, ma lo può dire soltanto il tribunale“, ricorda storie altrettanto assurde di “ordinaria” burocrazia; tra le tante, colpiscono sicuramente quella della comunicazione inviata da un tribunale di sorveglianza in cui si invitava un caporalmaggiore fucilato in una rivolta del 1916 a presentarsi “personalmente” al tribunale per chiedere la riabilitazione o del concorso pubblico per sordomuti nel quale i vincitori non furono assunti con la motivazione “non sentono”.

Tutto ciò, in un periodo in cui la digitalizzazione o l’intelligenza artificiale dovrebbe agevolare e semplificare ma in cui la “deficienza naturale” o inettitudine reale (oltre alla superficialità) sembra imbattibile e onnipresente.

Riporto il link all’articolo pubblicato su TGCOM24 “La storia di Luca, ha 14 anni ma per l’anagrafe di Roma è un fantasma: “Spiace dirlo ma vostro figlio non esiste“: https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/luca-14-anni-ma-per-anagrafe-e-fantasma_95221871-202502k.shtml

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La prescrizione presuntiva non si applica alla richiesta di liquidazione degli onorari del difensore con patrocinio a spese dello Stato

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 28 dicembre 2023

Il termine triennale previsto per la prescrizione presuntiva non può essere rilevato d’ufficio e, comunque, non si applica al diritto alla liquidazione del compenso spettante all’avvocato che ha difeso col patrocinio a spese dello Stato. Il Tribunale di Sciacca, con ordinanza del 25 febbraio 2021, ha accolto l’opposizione da me proposta, con la difesa dell’amico e Collega Avv. Daniele Rossi, avverso il decreto con il quale il Gip aveva respinto la richiesta di liquidazione del compenso sostenendo che fosse decorso il termine triennale dalla conclusione del procedimento nel quale era stata svolta la difesa col patrocinio a spese dello Stato. E’ stato riconosciuto, poi, che l’attività difensiva risultava dal fascicolo in possesso dello stesso Giudice, ragion per cui nessun altro onere di allegazione gravava sul difensore istante. La decisione del tribunale siciliano appare di particolare importanza anche in considerazione dei sacrifici già imposti all’avvocato che, pur non avendone l’obbligo, decide di iscriversi nell’albo dei difensori che esercitano col patrocinio a spese dello Stato e che, difendendo il non abbiente con gli stessi doveri di diligenza e professionalità coi quali difenderebbe qualsiasi altro assistito, deve attendere l’esito del giudizio per potere richiedere la liquidazione del compenso che, oltretutto, come previsto da una disciplina (d.P.R. 115/2002) che meriterebbe una efficiente e celere riforma, per l’attività effettuata nell’ambito dei giudizi civili, non può essere superiore alla metà dei parametri medi e, se la parte soccombente in giudizio viene condannata al rimborso delle spese di lite, il residuo viene trattenuto dallo Stato (quest’ultimo, in sostanza, incasserebbe una parte della remunerazione che spetterebbe a chi ha lavorato).

Il Tribunale di Sciacca, accogliendo l’opposizione avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di liquidazione del compenso al difensore con patrocinio a spese dello Stato, ha confermato che “delineati i tratti essenziali della prescrizione presuntiva, non si può ritenere applicabile tale istituto in sede di decisione sulla richiesta di liquidazione dei compensi avanzata, come nel caso di specie, dal difensore di soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
Ed infatti, il credito in questione può essere riconosciuto e soddisfatto solo a seguito della regolare presentazione – seguita dal relativo accoglimento – di una richiesta di liquidazione che va rivolta al Giudice del procedimento nel quale la prestazione professionale è stata svolta.
Detto particolare credito professionale presenta pertanto una specifica connotazione che è tale da sottrarlo ragionevolmente dal novero di quelli che di regola vengono soddisfatti contestualmente alla effettuazione della prestazione e che proprio per tale ragione sono assoggettati alla prescrizione presuntiva (cfr Cass. Pen. 37539/2008).
A ciò si aggiunga, in ordine alla violazione del disposto dell’art. 2938 c.c. lamentata dal ricorrente, che la prescrizione presuntiva deve, per trovare applicazione, essere eccepita dal debitore (nel caso di specie da individuarsi nello Stato) mentre nella specie non risulta dal decreto di rigetto opposto che la tale eccezione sia stata opposta dal “debitore” interessato (Cfr Cass. civ. Sez. II, 08-02-1994, n. 1248 “La prescrizione presuntiva, pur presentando la specifica peculiarità di determinare non l’estinzione dell’obbligazione, ma la presunzione “iuris tantum” (pur se con rigorose limitazioni in ordine alla prova contraria) che il debito sia stato pagato, è sottoposta alle stesse regole che disciplinano la prescrizione ordinaria, salve le disposizioni particolari espressamente dettate come quella sulla decorrenza del termine ex art. 2967 c.c. onde anche ad essa è applicabile la norma di cui all’art. 2938c.c. sul divieto di rilevarla d’ufficio da parte del giudice”).
Va infine evidenziato, condividendo le difese spiegate dal ricorrente, che l’attività svolta da parte del difensore che richiede la liquidazione delle competenze dovute per effetto dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato del proprio assistito è comprovata dalla documentazione presente nel fascicolo di causa in possesso dello stesso Giudice al quale viene avanzata la richiesta della liquidazione sicchè nessun altro onere di allegazione grava sull’istante”.

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I miei auguri ai Colleghi neo-avvocati

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 3 dicembre 2023

Lo scorso 20 novembre, con l’ultima seduta della seconda prova orale, si è concluso, per la IX sottocommissione per esame di avvocato del distretto della Corte d’Appello di Roma, l’esame dei candidati della sessione 2022-2023. E’ stato, per me, innanzitutto, un onore svolgere la funzione di Vice Presidente della sottocommissione presieduta dal Presidente Prof. Avv. Francesco Mazza e composta da Colleghi di grandissima competenza: la prof.ssa Marta Mengozzi, la dott.ssa Maria Inzitari, l’Avv. Bruno Botta e l’Avv. Domenico Buzzacconi.
E’ stata l’ultima sessione svoltasi con il cosiddetto “doppio orale”, ossia, con le prime tre prove scritte sostituite, in seguito alle misure emergenziali durante la pandemia, da una prova orale in videoconferenza e una seconda (sulle sei materie scelte dai candidati) “in presenza”. Nella prima prova sono stati esaminati i candidati iscritti nel distretto della Corte d’Appello di Milano, mentre, nella seconda, i candidati della Corte d’Appello di Roma.
Il loro sguardo preoccupato ancor prima dell’inizio di ciascuna prova, lo sfogliare veloce i testi sotto mano per qualche ultima lettura o “ripasso” delle materie, dopo, probabilmente, l’ultima notte insonne raccontata dalle occhiaie, mi ha fatto, tra l’altro, tornare alla mente che, 20 anni fa, ad ottobre 2003, ero io, proprio come loro, a sostenere quelle stesse prove con il desiderio e la necessità di potere esercitare “da avvocato”. Ho constatato spesso, nel presiedere le sedute, nel verificare, durante la prima prova, la soluzione data al caso assegnato e, durante la seconda, nell’interrogare e nell’ascoltare le risposte date alle domande poste dai Colleghi Commissari sulle sei materie scelte da ciascun candidato, un alto o buon livello di preparazione tale da avvertire, a volte, un piacere simile a quello che si prova in un colloquio tra colleghi. Nei casi in cui, invece, purtroppo, il livello di studio e di pratica dimostrato si è rivelato insufficiente, il dispiacere ha dovuto fare i conti necessariamente con la responsabilità del dover comunicare l’esito negativo: decisione, come è immaginabile, spiacevole ma dovuta, per il bene (oltre che dei potenziali clienti) dello stesso aspirante avvocato che, non scoraggiandosi, avrà modo di riprovare l’esame dopo uno studio più approfondito.
Mi sono domandato, più di una volta, nell’osservare i loro volti e ascoltandoli, quali possano essere i loro desideri, le loro aspettative, il futuro della professione che immaginano. L’entusiasmo e la passione dimostrata dai candidati risultati idonei e più preparati lascia la fiducia e la speranza che sapranno difendere i diritti e le libertà e, al tempo stesso, vigilare sulla conformità delle leggi ai principi costituzionali, dell’Ordinamento UE e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali non dimenticando mai di essere “Avvocati”. Auguro di cuore a tutti i neo colleghi uno splendido e proficuo avvenire e un’eccellente carriera professionale. (Art. 1 del codice deontologico “1. L’avvocato tutela, in ogni sede, il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando, nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio. 2. L’avvocato, nell’esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a tutela e nell’interesse della parte assistita. 3. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela dell’affidamento della collettività e della clientela, della correttezza dei comportamenti, della qualità ed efficacia della prestazione professionale”).

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Con il ddl di bilancio, cancellata una norma dopo 80 anni. Con l’illusione (o il pretesto?) di voler favorire la circolazione dei beni, si calpesta la certezza del diritto. Un altro regalo alle banche?

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 31 ottobre 2023

Un altro regalone alle banche? Altro che tassa sui profitti! Sembra passata quasi inosservata la norma contenuta nel disegno di legge di Bilancio con la quale, dopo circa 80 anni, viene, di fatto, abolita l’azione di restituzione conseguente all’accoglimento della domanda di riduzione proposta dal legittimario leso nella quota “legittima” o, sicuramente, ne vengono vanificati gli effetti. Viene presentata come un’innovazione a tutela della libera circolazione dei beni. In uno Stato di diritto, laddove si ritenga di modificare un istituto o una norma, non si può ignorare il principio basilare che la legge non può e non deve disporre che per l’avvenire. Il testo della norma -in particolare, quanto disposto sull’applicabilità e sulla data di entrata in vigore- se intende garantire la sicurezza della circolazione dei beni, dovrà, probabilmente, resistere a eccezioni di costituzionalità e di conformità ai principi dell’affidamento e della certezza del diritto imposti anche dalla normativa comunitaria e dalla CEDU. Dubito, pertanto, sulla costituzionalità della disposizione inserita nel ddl di bilancio nella parte in cui sancisce l’applicabilità alle successioni aperte dopo l’1 gennaio 2024 piuttosto che alle donazioni disposte successivamente all’entrata in vigore della legge. Si intende ridurre il contenzioso giudiziale? Credo che la norma possa determinare, piuttosto, un inevitabile aumento delle azioni tese alla conservazione del patrimonio del donatario. Si avverte la sensazione che, per essere la norma così formulata (con un’efficacia retroattiva di sanatoria delle donazioni già effettuate), dopo la propaganda estiva “contra banche”, si sia quasi voluto “chiedere scusa” per la (finta) paura (simile più alla solita condotta del “chiagni e fotti”) con un bel regalone: la sanatoria delle ipoteche in favore di banche su beni eccedenti la quota legittima e lesive dei diritti dei legittimari lesi. Se così fosse, si confermerebbe molto deludente e contraddittorio il comportamento di chi, in perenne campagna elettorale, cerca, pubblicamente, “a parole” di attirare il consenso con una politica contro le uniche società che hanno fatto profitti miliardari ma, nella realtà, le favorisce mentre la gente comune lotta contro l’aumento dei prezzi e il caro mutui. La disposizione, cancellando dopo 80 anni una norma conforme all’ordinamento che protegge i legittimari, non è’ affatto un passo in avanti e non danneggia -questa volta- gli utenti bancari ma tutti i cittadini che credono e vogliono credere nella certezza del diritto. Si può, certamente, abrogare una norma o modificarla ma senza pregiudicare le aspettative o gli interessi o i diritti già sorti e, in questo caso, si spera che il Legislatore modifichi, quantomeno, l’entrata in vigore disponendone l’applicabilità non alle successioni aperte dal 1 gennaio 2024, bensì, alle donazioni o ai pesi pregiudizievoli posti successivamente alla suddetta data.

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Decisione o adesione alla proposta di rinuncia al ricorso in Cassazione: è compatibile con l’ordinamento (oltre che con la Costituzione) quanto previsto dall’art. 380 bis cpc? Una “proposta” che non si può rifiutare? Alcuni interessanti articoli sulla norma introdotta dalla riforma Cartabia

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 14 aprile 2023

Le novità introdotte dalla recente riforma del codice di procedura civile hanno già suscitato non poche perplessità in merito a varie ragioni di pericolo di compromissione dei diritti di difesa. Sembra, invece, che non abbia destato preoccupazione, finora, (o, forse, non è stato oggetto di attento esame) quanto previsto dall’art. 380 bis c.p.c. la cui norma prevede, relativamente al giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, che laddove il Presidente di Sezione o un Consigliere delegato ravvisi l’inammissibilità o l’improcedibilità o la manifesta infondatezza del ricorso, questi possa formulare una sintetica “proposta” di definizione che viene comunicata ai difensori delle parti. Nel termine di 40 giorni dalla comunicazione, il ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di “nuova” procura speciale, può chiedere la decisione, altrimenti il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’art. 391 c.p.c..

Una prima e superficiale lettura dei primi due commi dell’articolo appena citato potrebbe lasciare l’impressione che il diritto costituzionale al giudizio di legittimità sia comunque salvaguardato visto che la parte potrebbe non aderire alla “proposta” e chiedere che il ricorso sia deciso. Ciò che, tuttavia, dovrebbe far preoccupare per la possibile compromissione del diritto di difesa e al Giudizio di Legittimità -in aggiunta alla rilevanza attribuita ad una sorta di rinuncia “tacita” al ricorso in Cassazione che sarebbe determinata da una “proposta” formulata da un Giudice “monocratico” e, dunque, non dal Collegio- è quanto previsto al terzo comma della norma di cui all’art. 380 bis c.p.c. , ossia, che qualora la parte presenti istanza con la quale chieda la decisione, la Corte vi provvederà ma se il giudizio dovesse essere definito in conformità alla proposta che era stata formulata (dal Presidente di sezione o dal Consigliere il quale, peraltro -non essendo prevista una incompatibilità- potrà far parte del Collegio) “applica” il terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c. che prevedono la condanna, in aggiunta alle spese e al raddoppio del contributo unificato, al risarcimento per responsabilità aggravata (il quarto comma dell’art. 96 cpc prevede la condanna fino a 5000 euro). Ferma restando l’esigenza che siano evitati ricorsi inammissibili o manifestamente infondati, bisognerebbe domandarsi: è compatibile con l’ordinamento, con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo il procedimento di “decisione accellerata” (o, forse, verrebbe da dire: “estinzione accellerata”)? E’ proporzionata la misura sanzionatoria introdotta o può apparire, piuttosto, un inopportuno “avvertimento” che incita la parte ad aderire alla proposta e a rinunciare al proprio diritto (con conseguente passaggio in giudicato e irrevocabilità della decisione impugnata) per il solo timore di vedersi applicata a suo carico una condanna -oltre che alle spese e al raddoppio del doppio dell’importo del contributo unificato- anche per responsabilità aggravata? E’ corretta una sorta di rinuncia “tacita” al giudizio di legittimità in seguito ad una “proposta-decisione” formulata da un Giudice singolo e non dal Collegio? Spero che la norma appena introdotta sia al più presto oggetto della massima riflessione, soprattutto da parte dell’Avvocatura e del Parlamento, sulla sua compatibilità con il diritto di difesa e al giusto processo protetti dalla Carta Costituzionale oltre che dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.

Invito a leggere attentamente alcuni interessanti articoli del Prof. Bruno Capponi (Professore ordinario di Procedura civile e avvocato, già magistrato ordinario), pubblicati sulla rivista giuridica telematica Judicium– Pacini Giuridica di cui riporto di seguito i link .

Bruno Capponi, Odissea nel Palazzaccio

Bruno Capponi, Dei Giudici monocratici in Cassazione

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La riduzione della durata dei giudizi civili non deve comportare il rischio di una “giustizia sommaria”. Mie brevi e semplici considerazioni sulla predisposizione di bozze di provvedimenti da parte di soggetti diversi dal Giudice e sulla trattazione delle udienze

Pubblicato da: Roberto Di Napoli su 10 dicembre 2022

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Il tentativo di rendere più celere la definizione dei giudizi civili rappresenta il principale obiettivo a cui tende la riforma del processo civile così come predisposta dal Legislatore Delegato con il d.l.gs. 10 ottobre 2022, n. 149 di cui è prossima l’entrata in vigore. Strumentale a tale scopo è (o, forse, è stato ritenuto) anche il “potenziamento” dell’ufficio del processo (struttura già esistente e composta, oltre che da magistrati onorari di pace o tirocinanti, da altre figure professionali tra cui: coloro che svolgono la formazione professionale ex l. 111/2011, da personale delle cancellerie e laureati in giurisprudenza assunti a tempo determinato ex art. 11 d.l. 80/2021, conv. in l. 113/2021). Con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 151 ne sono state ampliate le competenze e si è prevista sua la costituzione non solo nei tribunali e corti d’appello, ma anche in altri uffici giudiziari. Il raggiungimento di un tale fine (così come la definizione dei processi penali in un tempo di durata ragionevole) è certamente condivisibile ed auspicabile. L’esame di alcune disposizioni della “neonata” riforma renderebbe opportuno, forse, però, anche un urgente intervento correttivo affinché l’ambizione (o illusione?) che il cittadino possa ottenere giustizia in tempi rapidi non comporti una “giustizia sommaria” con grave compromissione o negazione dello stesso diritto ad ottenere giustizia, nel pieno rispetto del contradittorio e all’esito di una “cognizione piena” dei fatti e delle prove allegati e prodotte dalle parti. La riduzione della durata dei giudizi è un obiettivo doveroso ed auspicabile ma non si può raggiungere con strumenti e modalità che aumentino il rischio di una giustizia sommaria o di una “non giustizia”: altrimenti, si farebbe prima ad eliminare qualsiasi possibilità di difesa e, sicuramente, il “giudizio” durerebbe pochissimo. Si è esaltato, forse, un po’ troppo il “potenziamento” dell’organico e delle funzioni dell’ufficio del processo senza che si sia sufficientemente riflettuto sull’opportunità e sui rischi di quanto previsto all’art. 5, lett. a) d.lgs. 151/2022 in cui si è introdotta la possibile “predisposizione di bozze di provvedimenti” da parte dei componenti l’ufficio (che, come sopra accennato, presso i tribunali, possono essere anche laureati in giurisprudenza assunti nell’ufficio o soggetti diversi da Giudici o magistrati tirocinanti). Mi domando: come potrà, il cittadino, essere sicuro che il provvedimento sia stato effettivamente visionato dal Giudice e sia frutto del suo attento esame del fascicolo? E’ vero, esiste l’appello, ma, a prescindere che una tale risposta sarebbe in contrasto con l’obiettivo della durata celere dei giudizi e della riduzione dei procedimenti, la stessa possibilità di redazione di bozze di provvedimenti da parte dell’ufficio del processo è prevista anche in quello che dovrebbe essere il giudizio di secondo grado (sebbene, dinanzi alla Corte d’Appello, al momento, i componenti dovrebbero essere Giudici ausiliari ex art. 62 d.l. 69/2013, conv. in l. 98/2013 i quali sono nominati tra soggetti diversi dai magistrati ordinari di ruolo) e, perfino, in Cassazione. Mi sembra un serio pericolo per la giustizia civile che non significa solamente recupero crediti di banche o imprese: significa assicurare al cittadino l’esercizio dei propri diritti e che non si possa dubitare che il provvedimento sia il risultato di un’effettiva conoscenza da parte del Giudice a cui il fascicolo è stato assegnato secondo le norme sulla precostituzione del Giudice naturale. I cittadini possono essere certi e devono credere, senza possibilità di dubitare, che il provvedimento sia davvero, sempre e unicamente, il risultato dell’attenta e infallibile cognizione del Giudice o che la competenza del Giudice sia trasmessa e trasmissibile in chi gli è accanto? E’ probabile, laddove vi sia un Giudice scrupoloso e attento e laddove vi siano altrettanto scrupolosi e attenti componenti dell’ufficio del processo: un’attenta e scrupolosa verifica da parte del Giudice di bozze di provvedimenti, laddove esse siano predisposte da “non giudici”, mi pare, però, un’attività poco compatibile con il fine di agevolare la celere emissione dei provvedimenti e potrebbe ritardare, piuttosto che accelerare, la definizione dei giudizi. Pur essendo, personalmente, contrario alla predisposizione di bozze di provvedimenti da parte di soggetti diversi dal Giudice, credo , tuttavia, che per contemperare l’esigenza di maggiore celerità dei giudizi, anche attraverso la collaborazione dell’ufficio del processo, con l’altrettanto imprescindibile necessità che il provvedimento (soprattutto, la sentenza o la decisione che definisce il procedimento) sia il risultato dell’attento studio o verifica da parte del magistrato, potrebbero essere suggeriti dei correttivi nel seguente senso: 1) il Giudice dovrebbe essere tenuto a dichiarare se il provvedimento è stato redatto con la collaborazione dell’ufficio del processo indicando i nomi dei componenti; 2) laddove il provvedimento sia impugnato, la verifica dei motivi dell’impugnazione non dovrebbe essere demandata a soggetti diversi dal Giudice decidente . Vi è, poi, un’altra disposizione della riforma che meriterebbe una immediata revisione (oltre ad altre pur necessarie) visto che entrerebbe in vigore già dal prossimo 1 gennaio. La discrezionalità attribuita al Giudice in merito alla prerogativa se trattare l’udienza “in presenza” o con trattazione scritta o in videocollegamento, a mio modesto parere, non sempre può rivelarsi uno strumento utile ad una corretta decisione e, dunque, ad evitare la prosecuzione del giudizio nei gradi successivi. Ci possono essere udienze nelle quali, effettivamente, è inutile la partecipazione personale dei difensori o nelle quali sono essi stessi a preferire la “trattazione scritta”. Continuo a credere, però (come ho scritto, nei mesi scorsi, in miei precedenti post su questo stesso blog), che è al difensore che dovrebbe essere riservata la scelta sulle modalità più confacenti alla difesa nel singolo caso: ci possono essere ragioni per le quali questi ritenga più utile “discutere” verbalmente, dinanzi al Giudice, in merito ad una determinata questione di fatto o di diritto, oppure, intenda replicare immediatamente al difensore di controparte, oppure, assumere alcune determinazioni che possano essere diverse a seconda della difesa avversaria. E’ sufficiente leggere la maggior parte di provvedimenti con i quali, finora, è stata disposta la “trattazione scritta” per potersi rendere conto di come sia prevista la sola redazione di “istanze e conclusioni”, senza nemmeno prevedersi la possibilità di replicare. La normativa emergenziale di cui al d.l. 34/2020, convertito in legge 77/2020, all’art. 221, comma quarto, prevedeva la possibilità, entro il termine di cinque giorni dall’adozione del provvedimento col quale è stata disposta la trattazione scritta, di chiedere la trattazione dell’udienza in presenza. Nella realtà, molti Giudici hanno ritenuto e ritengono che la richiesta sia valutabile discrezionalmente negando, molte volte, l’udienza “in presenza” (la prerogativa di fissare le udienze con modalità diverse dall’udienza in presenza è stata prorogata fino al 31 dicembre 2022, dunque, anche oltre il periodo di emergenza: fino a tale data si sono consentiti concerti, partite di calcio ma si è ritenuta pericolosa la trattazione di udienze “in presenza”). La riforma di cui al d.lgs. 149/2022 prevede l’introduzione, nel codice di procedura civile, dell’art. 127 ter con il quale il Giudice potrà sempre disporre che l’udienza sia celebrata in trattazione scritta (laddove non abbia disposto che sia tenuta in videocollegamento) “salvo opposizione” di una delle parti. La stessa norma, tuttavia, dispone che sull’opposizione il Giudice decida con decreto non impugnabile, ragion per cui la valutazione non potrà, di fatto, che essere discrezionale. Pur consapevole delle possibilità offerte dalla tecnologia e, in primis, dagli strumenti informatici, credo che il dialogo dinanzi al Giudice e nel contraddittorio “immediato”, in alcuni casi, sia insostituibile e, comunque, un effettivo esercizio del diritto e onere della difesa dovrebbe attribuire al solo difensore la scelta sulla modalità di trattazione dell’udienza nell’interesse del proprio assistito e, forse, anche della stessa Giustizia. Scriveva Chiovenda: “la libertà del convincimento … vuole l’aria e la luce dell’udienza. Nei labirinti del processo scritto essa si corrompe e muore”. Non sempre, poi, la nota di trattazione scritta si presta alla sinteticità e alla chiarezza al tempo stesso richieste dall’ordinamento e che debbano essere volte a soddisfare la domanda di Giustizia e a contribuire all’emissione di una pronunzia “giusta”. Insegnava Piero Calamandrei nell’ “Elogio dei giudici”: “Il processo si avvicinerà alla perfezione quando renderà possibile tra giudici e avvocati quello scambio di domande e risposte che si svolge normalmente tra persone che si rispettano, quando, sedute intorno a un tavolino, cercano nel comune interesse di chiarirsi reciprocamente le idee. Spezzando l’arringa di un dialogo, l’arte oratoria ci perderà: ma ci guadagnerà la giustizia”. Con la riforma, la sostituzione dell’udienza “orale” con una nota di trattazione scritta non spezzerà l’arringa di un dialogo: non vi sarà proprio. Sarà sostituito, semmai, da una nota scritta che, secondo il tenore letterale della norma, deve contenere le sole “istanze e conclusioni” nel rispetto di principi di sinteticità e chiarezza. Ma cosa significa sinteticità? Quali sono i limiti concretamente rispettabili? Credo, ancora, che la progressiva riduzione o scomparsa delle udienze dinanzi al Giudice civile di merito (dinanzi ai Giudici di Legittimità le udienze “in presenza” già da tempo sono un’eccezione), non potrà non influire sull’apprendimento, da parte degli stessi praticanti, dell’attività forense, dell’oratoria, delle strategie difensive o sulla conoscenza e il dialogo tra gli stessi avvocati nell’interesse dell’assistito ma anche del reciproco confronto e della crescita professionale di ciascuno.

Ritengo, insomma, che già questi due aspetti della riforma del processo civile, ossia, la predisposizione di bozze di provvedimenti da parte dell’Ufficio del processo, nonché, la stabilizzazione della possibilità della celebrazione delle udienze “in trattazione scritta” malgrado l’opposizione del difensore, possano costituire un non trascurabile pericolo per tutti i cittadini visto che così come il processo penale investe la libertà delle persone, quello civile può avere ad oggetto la vita stessa, l’alimentazione, la famiglia, la proprietà e, in sintesi, i diritti fondamentali di ogni soggetto.

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